i mezzobusto di Sergio Saviane per 3/4
![]() |
3/4 |
Il quarto veneto notevole entrato nella mia vita fu quel cronista di razza e inarrivabile scrutatore di umane debolezze che rispondeva al nome di Sergio Saviane. Non riesco a darmi pace per aver maldestramente cancellato il messaggio di benvenuto della sua segreteria telefonica, che avevo tenuto per anni inciso nella mia; una registrazione effettuata pochi giorni dopo la sua morte, avvenuta nel 2001, quando, telefonando al numero 0423 563676, ti rispondeva ancora lui: «Non sono in casa. Potete lasciare un messaggio dopo il segnale acustico». E qui invece del banale bip ascoltavi Saviane che gorgheggiava, tale e quale il fringuello che si sentiva in sottofondo nel motivetto L’uccellino della radio cantato da Silvana Fioresi negli anni Quaranta. (...)
Sull’ornitologia Saviane s’era soffermato anche nella prima intervista che gli feci, scioccandomi con una sorprendente dichiarazione di debolezza: «Védito, Stefanelo, el me osèl xe come ’na ciàve Yale», e per rendere plastica la descrizione estrasse di tasca un mazzo di chiavi, mostrandomi quella più lunga, zeppa di forellini, che gli serviva per aprire una porta blindata. Era il suo modo poetico per confidarmi di sentirsi un sopravvissuto al tumore che lo aveva colpito all’organo più caro, e un tempo più utilizzato, dopo il cervello. Subito aggiunse, serissimo: «Pensa che Alberto Moravia ha passato la vita a discorrere e a far baruffa col suo lui. Poaréto, non sapeva dove mettere le virgole, l’unica cosa che gli riusciva bene era girare per l’Africa con la Dacia Maraini e la Maria Callas a fotografare merde di elefante. Ma della donna non sapeva niente, niente! Noi latini siamo degli usurpatori, crediamo che far l’amore sia una cosa divertente. Invece è drammatica».
C’eravamo conosciuti 10 anni prima, nel 1988. Dopo un trentennio di onorata carriera, L’Espresso lo aveva fatto fuori per affidare la rubrica della critica televisiva a un pubblicitario, Emanuele Pirella. (...) Molti anni dopo, quando restò di nuovo disoccupato, lo accompagnai a Milano da Maurizio Belpietro, direttore del Giornale sul quale già aveva scritto ai tempi di Montanelli. Per prepararsi all’incontro, durante il viaggio sulla A4 bevve due litri di acqua: doveva smaltire i postumi di una mezza sbornia della sera prima. C’eravamo quasi combinati per farlo scrivere in prima pagina. Corsivi brevissimi sui fatti di giornata. (...) Ma il primo commento non si rivelò all’altezza delle aspettative di Belpietro, e neppure mie. Vi si censurava il malvezzo dei trevigiani di mangiarsi i ghiri arrosto, consuetudine che Sergio giudicava barbara oltreché svantaggiosa, dal momento che, secondo lui, molti fabbricanti di cofani funebri recuperavano i gusci vuoti di noci e nocciole rosicchiate da questi simpatici roditori e li utilizzavano al posto del legno, dopo averli pressati, per farne casse da morto. (...)

Nessun commento:
Posta un commento