giovedì 29 agosto 2019

Dire Mondo

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Tutto ciò per dire che – ebbene sì -  per 13 anni ho bazzicato il corso di laurea in scienze della comunicazione. I primi tre all’università di Salerno (c’era ancora il vecchio ordinamento), gli ultimi 10 all’Unical (insegnando a contratto varie discipline: linguaggi pubblicitari, teorie dei linguaggi persuasivi, sociologia dei consumi, comunicazione sociale e marketing non convenzionale). E sono stati anni eccezionali. Più di routine quello di Salerno, più pensato e innovativo quello di Arcavacata. Lì era cambiata pure la denominazione. Si chiamava “Filosofie e linguaggi della conoscenza e della comunicazione”, un titolo forse barocco che però abbracciava l’offerta formativa e che inscenava il posizionamento strategico studiato dal presidente del Cdl Daniele Gambarara. Si rivelò fondamentale il raddoppio telematico, intitolato dallo stesso, “Mondoailati”, dove tutti, ma proprio tutti, studenti e docenti, armati di nick name, imparammo a ascoltare, scrivere, dialogare, polemizzare, elaborare, approfondire, insomma, studiare. Una palestra di retorica verbo-visiva, influenzata per puro caso da un altro genio della trasmissione del sapere, un altro performer seduttore, Orazio Converso, un matematico che in quegli stessi anni editava Videor, la videorivista di poesia diretta da Elio Pagliarani.

Ci misi un po’ a realizzare che era da stupidi rimproverare a quel Corso di non essere sufficientemente professionalizzante, di non essere tarato sui mestieri già codificati di giornalista, copywriter, art director, media planner, web content editor, etc. Quella palestra, tra teoria e prassi, apriva a qualsiasi (nuovo) mestiere collegato alla multimedialità, dal regista al producer, dal blogger al web-editor, dal social media strategist e persino al youtuber e all’influencer.

Manca molto quell’approccio, quella palestra “olistica”, ma – come suol dirsi – si era vent’anni avanti. E solo oggi, col senno di poi, après-coup, grazie alla freudianaNachträglichkeit, attraverso quel movimento di avanti-indietro tra qualcosa che è privo di forma verso qualcosa che ha forma (e di nuovo verso diversi modi di essere informe), tardivamente intendiamo (solo per dirne un paio) la barbarie leghista e la coglioneria a cinque stelle, ovvero il tramonto definitivo dell’etica, come la nostra specie sia obbligatoriamente gregariae non più naturalmente buona, la fabbrica dell’odio e delle fake news, l’ipostasi del “percepito” in un contesto di disinformazione generale e, come direbbe Mario Caligiuri, “di crescente diseguaglianza globale e di disagio sociale digitale, collegato con quello reale”. 
Un campo di studi che apre al master di 2° livello in Intelligence, giunto ormai alla VIII edizione, e al neo corso di laurea magistrale in Intelligence e analisi del rischio, ambedue incardinati nella classe Scienze della Difesa e della sicurezza e erogati dall’Università della Calabria.
Così inquadra la cosa Caligiuri: “La tendenza dominante del nostro tempo potrebbe essere identificata con la disinformazione, che rappresenta l’emergenza educativa e democratica più drammatica dell’inizio del XXI secolo. L’eccesso di informazioni ha sostituito la censura ma gli effetti sono gli stessi, con persone che non comprendono la realtà, diventando manovrabili consumatori e inconsapevoli elettori”[13].

Troppo lontane nel tempo la sessuo-economia di Wilhelm Reich, l’anatomia della distruttività umana di Fromm, il modello “drammaturgico” di Erving Goffman (che uno come Salvini, coi suoi rosari e cambi di felpa, sembra aver preso alla lettera), l’analisi prossemica di Eward T. Hall. Ma questo bel pezzo di intertestualità novecentesca (Reich, Freud, Goffman, Hall, Watzlawick & C., Peirce, Barthes, Eco, etc.) genera grosso modo due esiti diversi: il primo è pedagogico o meglio pedagogico-comunicativo e affronta il problema della disinformazione crescente.

Diverso il discorso degli eroici furori da me sommariamente ricordati, confluiti dopo vari aggiustamenti in un corso interclasse intitolato Comunicazione e Dams. Svanita la complessità di quel percorso formativo che collegava la filosofia alle patologie del linguaggio e alle neuroscienze, non ne resta che qualche lembo di sapere d’antan, se non del tutto vintage, prevalentemente di natura socio-semiotica e psicanalitica. Evidentemente nostalgico è il mio sguardo, ma non si può dire che quei temi siano inattuali. Del tutto, sono attualissimi. Quasi quanto la cyber security.

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